di Ferdinando RESTINA*
I primi studi sul Fattore Umano furono condotti da Taylor & Gilbreths (1856–1915/1868–1924) ma la pietra miliare che segnò l’importanza dei fattori psicologici nel lavoro fu l’esperimento condotto alla Western Elettric di Howthorne. I ricercatori si resero conto che i dipendenti dello stabilimento, dattilografe e operai, producevano di più non per le variazioni apportate alle condizioni di lavoro (illuminazione, pause, retribuzione…) ma perché si rendevano conto di essere oggetto di attenzione: i cambiamenti erano dovuti a fattori psicologici e non sociologici.
In aviazione il bisogno di condurre studi su questo argomento, da parte di diverse discipline scientifiche, fu conseguente ad una drammatica constatazione statistica: durante la Prima Guerra Mondiale su 100 piloti uccisi in battaglia solamente 2 venivano presi prigionieri, 8 precipitavano a causa di problemi tecnici, mentre su ben 90 casi incideva il Fattore Umano. Ma cosa si intende per Fattore Umano?
Il Fattore Umano è l’insieme delle operazioni e delle modalità con cui l’uomo agisce nel suo ambiente di lavoro. I fattori umani hanno come oggetto di studio le persone mentre sono immerse nelle loro mansioni professionali e nell’ambiente fisico ed interpersonale, nelle iterazioni con gli strumenti di lavoro e con le procedure. L’obiettivo di tale ricerca è perseguire "sicurezza ed efficienza.”
La figura rappresenta il modello SHELL (L=Lifeware; E=Evoirement; H=Hardware; S=Software). Il modello rappresenta l’uomo “L” al centro del suo universo, impegnato a interfacciarsi con altri elementi umani “L” del suo gruppo; con “E” inteso come ambiente fisico, psicologico e sociologico; “H” macchinari, strumenti …; “S” con le regole e le procedure. È da notare che i bordi del modello, nelle sue parti, non aderiscono perfettamente alle altre, è la dimostrazione grafica della difficolta di interfacciare di “L” con gli altri elementi.
Gli studi e le implementazioni pratiche trovarono nell’aviazione commerciale un ospite importante, in particolare dopo una sfortunata serie d’incidenti gravi avvenuti negli anni ’70, tra cui la collisione in pista tra due Boeing 747 all’aeroporto di Tenerife Los Rodeos che provocò la morte di 583 persone.
L’investigazione sul volo 173 della United Airlines precipitato a Portland (Oregon) nel 1978 senza carburante, mentre l’equipaggio era intento a risolvere un problema relativo a una spia luminosa del carrello di atterraggio la NTSB (National Transportation Safety Board) dopo diverse conferenze e workshop raccomandò che piloti e successivamente anche assistenti di volo dovessero essere sottoposti a percorsi formativi nell’ambito dei fattori umani. Uno psicologo della NASA, John Lauber coniò il termine CRM “Cockpit Resource Management” e successivamente generalizzato in “Crew Resource Management”. Le ricerche di Lauber erano particolarmente focalizzate sui processi comunicativi relativi al gap di potere fra il Comandante e gli altri membri dell’equipaggio responsabile di numerosi incidenti, es. Tenerife.
I numerosi incidenti occorsi negli anni, sia in aviazione che in altri importanti settori dell’industria come l’incidente della centrale nucleare di Three Mile Island, di Chernobyl, l’esplosione della piattaforma petrolifera BP Deepwater Horizon che costo la vita a 11 persone e provocò uno dei più gravi disastri ecologici della storia, Tenerife con 583 morti, il disastro di Seveso, Space Shuttle Challenger e Columbia, l’incidente di Linate, la Costa Concordia, Thyssen Group… hanno contribuito ad evoluzioni negli studi, sia nei concetti che nella sua implementazione oggettiva, coinvolgendo sia il settore organizzativo che intra-organizzativo, incrementando significativamente la sicurezza e ampliando l’analisi agli errori sistemici e non più solamente agli errori individuali del personale di front-line. Sistemico inteso come l’insieme di elementi umani, tecnologici e relazionali, fortemente interconnessi, interattivi e finalizzati ad un obiettivo comune, la sicurezza.
Oggi l’ultima generazione di CRM (Crew Resource Management) si fonda sui concetti di “Threat and Error management”, cioè un processo attivo di “consapevolezza situazionale” che conferisce la capacità di riconoscere le minacce attive e latenti e di gestirle, mitigandole in un processo di resilienza operativa e psicologica.
Abbiamo detto che il Fattore Umano è l’insieme delle operazioni e delle modalità con cui l’uomo agisce nel suo ambiente di lavoro. Quindi se l’applicazione di questi concetti hanno contribuito significativamente ad incrementare la sicurezza in un settore organizzativo complesso come l’aviazione commerciale tali studi e implementazioni possono essere applicati a tutti quei settori dell’industria dove le conseguenze dell’errore umano comporta la perdita di vite umane e di beni strumentali: Trasporto ferroviario, marittimo, petrolchimico, sanitario, nucleare, metalmeccanico, ecc. Sfortunatamente, eccetto per alcune eccezioni manifestate dalla sensibilità e dall’intelligenza di alcuni manager nei trasporti ferroviari e nella sanità, molte organizzazioni si limitano a una sicurezza burocratizzata fatta di norme e regolamenti, senza costrutti legati alle operazioni concrete ma atte solamente a uno scarico di responsabilità restringendo spazi, risorse e vincolando l’individuo di front-line.
Questa importante assenza è principalmente dovuta alla non conoscenza dei concetti e in alcuni casi alla convinzione che non servono a nulla, in quanto non forniscono immediati e visibili ritorni economici, trascurando il dettaglio che un incidente costa molto di più che un modesto investimento in sicurezza. La BP fu condannata a un indennizzo di 20 miliardi di dollari.
Risale al 1999 la pubblicazione del libro “To Err is Human”, patrocinato dalla National Accademie of Sciences, che segna la data della presa d’atto, da parte dell’Amministrazione americana, che il fattore umano incideva pesantemente nella determinazione del rateo di eventi avversi in Sanità.
Sempre seguendo questo filone di ricerca, negli Stati Uniti lo studio del Fattore Umano è diventato elemento essenziale nella preparazione operativa di medici e infermieri dopo che nel 2005 furono rilevati dati allarmanti circa la sicurezza nel sistema sanitario americano che contava all’epoca circa 210.000 decessi all’anno per “medical malpractice” (errore medico), errori che potevano essere evitati, oltre ad un elevato numero di casi di pazienti che avevano subito danni e conseguenze gravi dagli ingenti costi economici e sociali.
In Italia, si calcola che ci siano circa 8 milioni di ricoveri all’anno, con una incidenza di casi di “malpractice” pari a 320000 casi annui che subiscono conseguenze gravi tra cui un numero, non ben definito, che oscilla tra i 15/50000 casi di persone che perdono la vita (fonte CINEAS).
A soluzione di quanto rilevato si ricorse all’esperienza aeronautica nel campo della sicurezza e formazione al Fattore Umano. Questo “Know How” fu copiato e incollato letteralmente nella sua generale filosofia e adattato allo specifico settore. La sola implementazione delle Checklist in sala operatoria contribuì a ridurre del 50% i decessi, di un terzo le varie complicazioni e a risparmiare circa 15 miliardi di dollari (The New England Journal of Medicine del 29 gennaio 2009). Secondo il chirurgo Dott. Atul Gawande, autore di libri sulla sicurezza del paziente, l’applicazione della check list in sala operatoria ha letteralmente decimato i casi di malpractice, soprattutto in alcune procedure come quella relativa al catetere venoso centrale.
La drastica riduzione degli incidenti e dei costi relativi conferma e ci insegna che lo studio delle dinamiche umane nelle operazioni complesse è essenziale per il raggiungimento di elevati livelli di sicurezza, efficienza e competenza nell’ambito professionale e organizzativo. Senza questo tipo di competenza interiorizzata le “risposte alla sicurezza” non posso che limitarsi ai concetti normativi appresi e spesso non pienamente compresi (e, per questo, spesso violati) ma che potrebbero apparire coerenti ad un sondaggio per la rilevazione dell’indice HSE (Health Safety Environment).
In un’organizzazione complessa (e non) è essenziale quindi che la gestione della sicurezza passi attraverso la formazione del personale operativo alle “competenze Non-Tecniche”, cioè a quelle capacità di acquisire e mantenere la “consapevolezza situazionale”, nonché la capacità di comunicare efficacemente e efficientemente, o saper impostare uno schema mentale per poter processare e analizzare le informazioni, permettendo di giungere ad una decisione analitica. Questa consapevolezza permette di evitare altresì pericolose applicazioni di metodi euristici e/o bias comportamentali che possono incrementare indebitamente il livello di rischio. A questo fine è necessario lavorare sulle competenze nel concetto di Team Building e di Conflict Resolution…, nei concetti di Leadership e Followership, ecc.
Quindi, l’integrazione di percorsi formativi al personale di front-line conferisce quelle competenze Non-Tecniche utili alla gestione dell’errore e all’innalzamento dei livelli di sicurezza nonché ad un incremento qualitativo, quantitativo ed economico delle operazioni attive (come successe nel caso dell’applicazione della check-list in sala operatoria) che unitamente ai sistemi normativi rappresenteranno la base di appoggio per le rilevazioni di indici HSE attendibili, in un processo continuo di misurazione/formazione/misurazione/formazione…. nell’infinito viaggio della sicurezza.
* Comandante di Airbus e Responsabile del Dipartimento interdiscilinare Fattori Umani di STASA